SAPIENZA Università di Roma - Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di laurea in Storia, Antropologia, Religioni
a.a. 2014/2015

Eugenio Testa

Discipline DEA IV - Antonio Gramsci: letture italiane
(codice 1023967) - 6 CFU

M-DEA/01 - Discipline demoetnoantropologiche

 

 

ANNO DI CORSO: 2 - SEMESTRE: 2
CdL: Storia, Antropologia, Religioni - L 42 - codice 15943
CURRICULUM: Teorie e pratiche dell'antropologia - secondo anno

CONTENUTI
Nel corso degli ultimi cinquant'anni molto è cambiato il mondo (e con esso la società italiana, e i fatti di cultura), e c'è stato bisogno di cambiamenti di prospettiva e di ripensamenti teorici anche nell'ambito degli studi demologici e antropologici. La riflessione sul pensiero di Antonio Gramsci, così come è stato conosciuto a partire dalla pubblicazione, nel secondo dopoguerra, delle note scritte in carcere, ha accompagnato e segnato fortemente diverse fasi di questi cambiamenti e ripensamenti. Oggi le sue osservazioni su folklore, buon senso, senso comune, letteratura a grande circolazione, consumi culturali di massa, rapporti tra egemonia e subalternità, composizione e ruolo dei ceti intellettuali, nessi tra dimensione locale e prospettive nazionali o globali, sono spesso oggetto di attenzione (in Italia e, molto, fuori di essa) per chi ripensa allo studio della cultura popolare in termini più largamente antropologici, di etnografia del quotidiano e del contemporaneo, di analisi della fruizione dei prodotti dell'industria culturale.

OBIETTIVI FORMATIVI
Il corso intende fornire rapide ma non sommarie indicazioni utili a una contestualizzazione storica della figura di Gramsci, confrontarsi direttamente con le sue posizioni sui temi sopra accennati, e prendere in esame il lavoro di diversi autori per delineare un quadro di utilizzazioni (articolato per estensione tematica e cronologica) che di queste posizioni sono state fatte, in ambito italiano, per alimentare la riflessione antropologica.

PROGRAMMA D'ESAME
1) Antonio Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937. Palermo, Sellerio, 2005
2) Kate Crehan, Gramsci, cultura e antropologia. Lecce, Argo, 2010
3) Giovanni Mimmo Boninelli, Frammenti indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci. Roma, Carocci, 2007
4) Antonio Gramsci, «Osservazioni sul folclore»
(1931-1935) [dai Quaderni del carcere. Edizione critica dell'Istituto Gramsci. A cura di Valentino Gerratana
Torino, Einaudi, 1975; scarica da qui il .pdf]
5) Dispense a cura del docente [compongono le dispense i testi segnati con doppio asterisco nella lista di 'Letture per il corso' proposta in questa pagina: tutti i testi sono scaricabili in formato .pdf]

NOTE
L'esame sarà scritto, con alcune domande a risposta aperta sui principali argomenti trattati nei testi in programma.
E' prevista per gli studenti frequentanti la possibilità di svolgere esercitazioni di scrittura su temi trattati nel corso. Le esercitazioni saranno facoltative, verranno valutate e discusse individualmente e non influiranno sulla valutazione finale.

CALENDARIO DELLE LEZIONI: martedì ore 13-15 aula di A di Storia medievale, e venerdì ore 11-13 aula di Paleografia (secondo piano della Facoltà di Lettere)

INIZIO DELLE LEZIONI: martedì 17 marzo 2015

ESAMI:
martedì 9 e martedì 23 giugno 2015, aula A di Storia moderna e contemporanea, ore 11-14; martedì 7 luglio, aula di Paleografia, ore 11-14
martedì 8 aula A di Studi storico-religiosi,ore 11-14; martedì 22 settembre, aula B di Storia medievale, ore 11-14; martedì 6 ottobre, aula C di Storia medievale , ore 11-14

LETTURE PER IL CORSO:
[tutti i testi elencati verranno tenuti presenti durante il corso, e se ne consiglia la lettura, anche ai non frequentanti; i testi segnati con asterisco sono quelli su cui può essere utile concentrare l'attenzione; tra questi, quelli con doppio asterisco vanno considerati facenti parte delle 'dispense' e devono dunque essere studiati per preparare l'esame (la metà delle domande d'esame verterà sui testi della dispensa)]

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CROCE 1947 Benedetto Croce, «Antonio Gramsci, 'Lettere dal carcere'». Quaderni della Critica, 1947, n. 8, p. 86-88
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CROCE 1948 Benedetto Croce, «Antonio Gramsci, 'Il materialismo storico...'». Quaderni della Critica, 1948, n. 10, p. 78-79
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CIRESE 1949 Alberto Mario Cirese, «Il 'nuovo intellettuale'». Socialismo, n.s., 5. (1949), n. 1, p. 27
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DE MARTINO 1949 Ernesto de Martino, «Intorno a una storia del mondo popolare subalterno». Società, 5. (1949), n. 3, p. 411-435
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CROCE 1949a Benedetto Croce, «Antonio Gramsci, 'Gli intellettuali...'». Quaderni della Critica, 1949, n. 13, p. 95-96
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CROCE 1949b Benedetto Croce, «Antonio Gramsci, 'Il Risorgimento'». Quaderni della Critica, 1949, n. 15, p. 112
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CROCE 1950 Benedetto Croce, «Un giuoco che ormai dura troppo». Quaderni della Critica, 1950, n. 17-18, p. 231-232
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DE MARTINO 1950 Ernesto de Martino, «Note lucane» [1950]. In: Furore Simbolo Valore. Milano, Feltrinelli, 2002, p. 119-133
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DE MARTINO - LUPORINI 1950 Ernesto de Martino - Cesare Luporini, «Ancora sulla storia del mondo popolare subalterno». Società, 6. (1950), n. 2, p. 306-312
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LUPORINI 1950 Cesare Luporini, «Intorno alla storia del 'mondo popolare subalterno'». Società, 6. (1950), n. 1, p. 95-106
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SANTOLI 1951 Vittorio Santoli, «Tre osservazioni su Gramsci e il folclore» [1951]. In: Vittorio Santoli, I canti popolari italiani. Ricerche e questioni. Firenze, Sansoni, 1979, p. 219-228
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DE MARTINO 1951-1992 Ernesto de Martino, «Due inediti su Gramsci: 'Postille a Gramsci' e 'Gramsci e il Folklore'» [1951]. A cura di Stefania Cannarsa. La Ricerca Folklorica, n. 25, 1992, p. 73-79
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CIRESE 1951a Alberto Mario Cirese, «Come mi suoni, commare, ti ballo». Avanti!, Milano 3/11/1951, Roma 4/11/1951
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DE MARTINO 1951a Ernesto de Martino, «Gramsci e il folklore nella cultura italiana» [1951]. Il de Martino. Bollettino dell'Istituto Ernesto de Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario, 1996 , n. 5-6, p. 87-90
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CIRESE 1951b Alberto Mario Cirese, «Il volgo protagonista». Avanti!, Milano 8/5/1951, Roma 15/5/1951
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DE MARTINO 1951b Ernesto de Martino, «Il folklore progressivo» [sopratitolo:«Note lucane»], l'Unità, 26 giugno, p.3
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DE MARTINO 1951c Ernesto de Martino, «il folklore. Un invito ai lettori del Calendario». Il Calendario del popolo, 7. (1951), p. 989
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DE MARTINO 1952a Ernesto de Martino, «'Nuie simme 'a mamma d' 'a bellezza'» [sopratitolo: "Difesa della letteratura dialettale"]. Il Calendario del popolo, 8. (1952), p. 1061
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SALINARI 1952a Carlo Salinari, «Il ritorno di De Sanctis». Rinascita, 9. (1952), n. 5, p. 289-292
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DE MARTINO 1952b Ernesto de Martino, «Gramsci e il folklore». Il Calendario del popolo, 8. (1952), p. 1109
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TOGLIATTI 1952b Palmiro Togliatti, «L'antifascismo di Antonio Gramsci» [marzo 1952]. In: P. Togliatti, Gramsci. A cura di Ernesto Ragionieri. Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 81-104
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CROCE 1952c Benedetto Croce, «De Sanctis-Gramsci». Lo Spettatore italiano, 5. (1952), n. 7, p. 294-295
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GERRATANA 1952d Valentino Gerratana , «De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? (Appunti per una polemica)». Società, 8. (1952), n. 3, p. 497-512
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DE MARTINO - CIRESE 1953 Ernesto de Martino - Alberto M. Cirese, «Mondo popolare e cultura nazionale». La Lapa, 1. (1953), n. 1, p. 3
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DE MARTINO - TOSCHI 1953 Paolo Toschi - Ernesto de Martino, «Sugli studi di folklore in italia». La Lapa, 1. (1953), n. 2, p. 23-24
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DE MARTINO 1954 Ernesto de Martino, «Per un dibattito sul folklore». Lucania, 1. (1954), n. 2, p. 76-78
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CIRESE 1959 Alberto Mario Cirese, «Orientamenti storicistici attuali.' Le 'Osservazioni sul folclore' di Antonio Gramsci». In: Orientamenti generali nello studio delle tradizioni popolari. Università di Cagliari, dispense per il corso di Storia delle tradizioni popolari, a.a. 1959/60, p. 123-131
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CIRESE 1967 Alberto Mario Cirese, «Folklore come rivolta». Rinascita sarda, 5. (1967), n. 7, p. 10
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LOMBARDI SATRIANI 1967-1970 Luigi M. Lombardi Satriani, «Gramsci e il folclore: dal pittoresco alla contestazione». In: Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967. A cura di Pietro Rossi. Roma, Editori Riuniti - Istituto Gramsci, 1970, 2. v., p. 329-338
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CIRESE 1967-1972 Alberto Mario Cirese, «Alterità e dislivelli interni di cultura nelle società superiori». In: Folklore e antropologia tra storicismo e marxismo. A cura di A.M. Cirese. Palermo, Palumbo, 1972 : p. 11-42
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CIRESE 1967-1976 Alberto Mario Cirese, «Concezioni del mondo, filosofia spontanea e istinto di classe nelle 'Osservazioni sul folclore' di Antonio Gramsci». Lares, 74. (2008), n. 2, p. 467-498
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LOMBARDI SATRIANI 1968 Luigi M. Lombardi Satriani, «Analisi marxista e folklore come cultura di contestazione». Critica marxista, 6. (1968), n. 6, p. 64-88
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CIRESE 1969 Alberto Mario Cirese, «Vittorio Santoli e la critica dei testi popolari negli anni di Barbi, Croce e Gramsci». In: Letteratura italiana. I critici. A cura di C. Grana. Milano, Marzorati, 1969, v. 5., p. 3648-3658
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CIRESE 1976a Alberto Mario Cirese, «Postille» [aggiunte a «Concezioni del mondo, filosofia spontanea e istinto di classe nelle 'Osservazioni sul folclore' di Antonio Gramsci»]. In: Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci. Torino, Einaudi, 1976, p. 107-127, 142-147
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CIRESE 1976b Alberto Mario Cirese, «Incontro con A. M. Cirese». l'Unità, 22/1/1976 [intervista a cura di Alberto Sobrero]
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CIRESE 1977 Alberto Mario Cirese, «Gramsci e il folklore come concezione tradizionale del mondo delle classi subalterne». Problemi, 1977, n. 49, p. 155-167
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CLEMENTE - ANGIONI 1979-2008 Pietro Clemente - Giulio Angioni, «I concetti gramsciani di egemonia e dominio in antropologia. Dialogo a due voci (1979)». Lares, 74. (2008), n. 2, p. 420-426
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CIRESE 1980 Alberto Mario Cirese, «Libretti popolari italiani: appunti su Gramsci, Santoli, Fernow, Müller, Wolff». Problemi, 1980, n. 58, p. 100-111
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PASQUINELLI 1987 Carla Pasquinelli, «Oltre Eboli: cultura e folklore in Italia». Critica marxista, 25. (1987), n. 2-3, p. 239-247
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CIRESE 1995 Alberto Mario Cirese, «Il contributo di Gramsci all'antropologia». Il Cannocchiale, 1995, n. 3, p. 85-89
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BONINELLI 2008 Giovanni Mimmo Boninelli, «Osservazioni e descrizioni: Gramsci e l'antropologia». Lares, 74. (2008), n. 2, p. 427-443
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CIRESE 2008 Alberto Mario Cirese, «Antonio Gramsci, oltre i confini del comunismo». La Nuova Sardegna, 23/10/2008, p. 35
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DEI 2008 Fabio Dei, «Un museo di frammenti. Ripensare la rivoluzione gramsciana negli studi folklorici». Lares, 74. (2008), n. 2, p. 445-464
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BARATTA 2009 Giorgio Baratta, «Gramsci ritrovato tra Cirese e i 'cultural studies'». Critica marxista, n. 2, 2009, p. 52-61
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CLEMENTE 2010 Pietro Clemente, «Il ritorno inquieto di Gramsci nell' antropologia italiana». In: Tornare a Gramsci. Una cultura per l'Italia. A cura di Gaspare Polizzi. Grottaferrata (RM), Avverbi, 2010, p. 175-194
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BONINELLI 2011 Giovanni Mimmo Boninelli, «Per Giorgio Baratta. Alcune annotazioni in tema di folclore negli scritti gramsciani». Lares, 77. (2011), n. 3, p. 460-470
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DEI 2011 Fabio Dei, «Gramsci, Cirese e la tradizione demologica italiana». Lares, 77. (2011), n. 3, p. 501-518
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PIZZA 2013 Giovanni Pizza, «Gramsci e de Martino. Appunti per una rilessione». Quaderni di Teoria Sociale, 2013, n. 13, p. 77-121
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LEZIONI: argomenti trattati, materiali utilizzati, opere citate:

martedì 17 marzo

audio della lezione:
prima parte
seconda parte


Presentazione del corso: argomenti previsti, struttura del programma, testi d'esame, 'letture' e 'dispense'; possibilità di esercitazioni di scrittura per i frequentanti; l'editoria gramsciana: Gramsci oggi è autore di oltre settemila pagine a stampa, ma di nessun libro, lui vivente

venerdì 20 marzo

audio della lezione:
prima parte
seconda parte


Cenni sullo "spirito di scissione"; notizie di biografia gramsciana (vedi la "Cronologia della vita di Antonio Gramsci", che sta in A. Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell'Istituto Gramsci. A cura di Valentino Gerratana. Torino, Einaudi, 1975, p. XLIII-LXVIII)
martedì 24 marzo

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937 (Introduzione; Gli scritti politici). Gramsci come autore 'classico', con motivi di interesse che vanno oltre i suoi tempi e i suoi luoghi, che può essere interrogato per l'attualità, come lui faceva con Machiavelli. Il motivo del suo successo può essere avvicinato a quello che lui riscontrava in Croce: il non proporre le proprie posizioni come 'sistema' chiuso, ma come risposte a questioni che la storia via via proponeva. Gramsci e Croce hanno avuto in comune il non aver fatto parte di 'istituzioni' della cultura italiana, ma Croce ha potuto proporre il proprio pensiero in forme compiute con le sue pubblicazioni, mentre la fortuna di Gramsci è postuma, affidata a materiali come articoli giornalistici, lettere, appunti preparatori, che lui stesso esplicitamente considerava non rappresentativi e affidabili (notiamo però che il suo non è un caso isolato nella cultura del Novecento: anche autori come Saussure, Wittgenstein, Malinowski, Benjamin ci hanno parlato largamente attraverso testi pubblicati dopo la loro morte e mai da loro preparati nella forma che conosciamo).
Per orientarsi nell'opera di Gramsci è utile riconoscere un leit-motiv, un tema conduttore e organizzatore delle sue riflessioni: il tema del ruolo degli intellettuali e dell'organizzazione della cultura, cioé del nesso tra politica e cultura; questo comporta un allargamento sia dell'accezione di azione politica sia della nozione di cultura (che non è qualcosa di statico, dato, separato, ma è invece storicamente mutevole e socialmente agito, fatto di contenuti, istituzioni, persone concreti). Le posizioni di Gramsci e del gruppo dell'Ordine Nuovo sui consigli di fabbrica torinesi come esemplificazione di quel nesso tra politica e cultura.
Cenni su alcuni temi degli 'scritti politici' fino all'arresto della fine del 1926.

venerdì 27 marzo

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

 

Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937 (Lettere; Quaderni; Gramsci di fine secolo). Lettere e Quaderni come letture complementari: lo sfondo umano e il contesto esistenziale delle note stese tra il 1929 e il 1935. Senso comune e filosofia, identità di filosofia e storia; vicinanza e differenza tra 'filosofia della praxis' (cioè il marxismo) e idealismo crociano; "la filosofia della praxis 'basta a se stessa', contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale ed integrale concezione del mondo [...] per diventare una totale, integrale civiltà" (Gramsci, Quaderni, p. 1434): non è andata così, e questa visione è ciò che di Gramsci oggi non possiamo più utilizzare

martedì 31 marzo

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

Crehan, Gramsci, cultura e antropologia (Prefazione di Giovanni Pizza; cap. 1: Introduzione; cap. 2: Vita e opere di Gramsci). Il dialogo con gli scritti di Gramsci è stato effettivamente caratterizzante per la tradizione di studi antropologici italiani, fino agli inizi degli anni '80, ma il discorso va articolato, come si vedrà più avanti nel corso; la tradizione italiana è fatta di tre distinti filoni, in passato marcatamente distinti - quello demologico (o di storia delle tradizioni popolari), quello etnologico, quello antropologico-culturale - e il grado e il contenuto delll'interesse per Gramsci è stato diversificato tra di esse e all'interno di ciascuna di esse.
Crehan non ha letto Gramsci nell'originale italiano, né ha esaminato quel poco che della discussione italiana è stato tradotto in inglese; questo può essere un limite, ma è anche per noi italiani interessante, perché vediamo come una antropologa statunitense che lavora solo nell'ambito della tradizione anglosassone conduca uno studio approfondito di Gramsci, prendendolo sul serio come marxista e traendone spunti di riflessione specificamente rilevanti per l'antropologia contemporanea.
L'antropologia accademica si è sviluppata al seguito del colonialismo europeo, e si è mantenuta in un difficile equilibrio tra legittimazione e razionalizzazione della politica coloniale e valorizzazione del punto di vista dei nativi, con effetti destabilizzanti e oppositivi nei confronti del colonialismo stesso; in questa prospettiva lo sguardo antropologico spesso ha rappresentato le società colonizzate come entità conchiuse e isolate, sottolineandone gli aspetti di sistemicità, coerenza e coesione. Gramsci è estremamente interessato ai mondi altri dei subalterni e alla loro dimensione culturale, ma non ne sottovaluta il carattere eterogeneo e composito, né trascura il contesto in cui ogni realtà subalterna è inserita: la costruzione di una contro-egemonia ha bisogno di partire da ciò che realmente c'è e dovrà scontrarsi con ciò che realmente le si oppone. L'attenzione gramsciana al potere (chi lo ha e chi non lo ha? chi è oppresso e chi oppressore?), che nelle società occidentali si articola in termini di rapporti di classe, sposta utilmente l'attenzione dalla opposizione tradizione-modernità in cui spesso si esaurisce la valutazione delle forze culturali in campo nelle società del Sud del mondo.
Gramsci è marxista, ma in modo duttile e non schematico; ritiene che siano i rapporti di produzione a modellare le società, ma ritiene anche che l'azione delle forze economiche fondamentali non possa essere schematizzata, preveduta; essa va studiata empiricamente, caso per caso, e produce nient'altro che possibilità: determinate azioni o forze politiche possono realizzarle, oppure no; nella storia nulla è inevitabile o automatico.

venerdì 10 aprile

audio della lezione:
prima parte
seconda parte
[in risposta a una richiesta di chiarimenti:] A cosa fa riferimento Buttigieg parlando, nella nota introduttiva, di "marxismo occidentale", "eurocomunismo", "nuova sinistra": György Lukács, Karl Korsch, la scuola di Francoforte (Horkheimer, Marcuse, Adorno), il P.C.I., movimenti e organizzazioni a sinistra del P.C.I., il femminismo militante.
Crehan, Gramsci, cultura e antropologia (cap. 2: Vita e opere di Gramsci; cap. 3: Antropologia e cultura). Riprendendo il discorso di Crehan sul marxismo di Gramsci: la formula di Romain Rolland "pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà" Gramsci la fece sua e la impiegò spesso negli scritti e nelle lettere per definire il suo atteggiamento verso la vita, e quello che secondo lui dovevano fare i rivoluzionari per intervenire sul corso della storia, soprattutto cercando di interpretare e articolare le teorie di carattere generale in funzione delle situazioni concrete particolari (e non viceversa); solo così si poteva riuscire a costruire (contro)egemonia, a formare volontà collettive, a raggiungere e trasformare il senso comune. A proposito della frammentarietà delle note del carcere, Crehan osserva che certo questa è dipesa dalle condizioni concrete in cui Gramsci si è trovato a stenderle, ma anche da una propensione dell'autore per uno stile dialogico e polemico, e dalla sua esigenza di evitare una scrittura saggistica compiuta, stante la sua impossibilità ad accedere alle fonti documentarie necessarie a fondarla scientificamente.
Trattando il tema 'antropologia e cultura' Crehan non intende tracciare una storia dell'uso del concetto di cultura in antropologia, ma solo mostrare come alcuni elementi di questo discorso lo abbiano accompagnato dalle origini ai nostri giorni, magari come presupposti inconsapevoli, e come la lettura delle note di Gramsci possa servire a proporre alternative teoriche praticabili per una antropologia della contemporaneità. Questi elementi anche surrettiziamente persistenti negli usi antropologici della nozione di cultura si articolano intorno a tre assunti: 1) le culture sono sistemi, insiemi basati su un modello (non necessariamente coeso e privo di conflitti, ma riconoscibile) 2) le culture sono entità distinte e delimitate 3) le società studiate dagli antropologi (le 'società del Sud') si caratterizzano per l'opposizione tradizione-modernità. La definizione di E.B. Tylor (1871) implica che: non esistono popoli senza cultura; la cultura è un insieme complesso; la cultura è acquisita e non biologicamente trasmessa; la cultura è un fatto sociale; e in generale essa non si fonda sull'opposizione cultura-incultura (ignoranza), ma su quella natura cultura-natura. La definizione di Tylor ancora identifica i termini 'cultura ' e 'civiltà'. Accanto a questa identificazione universalista e unificante di tradizione illuminista, era intanto sorta, in connessione con il romanticismo e i nazionalismi, una accezione plurale di cultura, ciascuna cultura essendo associata a una nazione, a un territorio, a un popolo, a una lingua: cultura come modo di vivere di una comunità.
martedì 14 aprile

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

Crehan, Gramsci, cultura e antropologia (cap. 3: Antropologia e cultura). 1) Culture come sistemi; questo è stato declinato secondo accezioni diverse: sistemi adattativi (Marvin Harris), sistemi conoscitivi (David Schneider), sistemi strutturali (Claude Lévi-Strauss), sistemi simbolici (Clifford Geertz); Geertz: l'antropologia come scienza interpretativa, alla ricerca di significati, non come scienza sperimentale, alla ricerca di leggi; l'etnografia produce descrizioni dense (thick), e propone interpretazioni di interpretazioni: ciò è possibile perché il lavoro dell'antropologo implica la sua capacità di ricostruire la logica informale che regola la vita effettiva della cultura studiata. Anche Marshall Sahlins parla di logiche delle culture, a cui obbediscono le loro trasformazioni nel tempo; anche nelle sue ricerche, che pure si occupano molto del rapporto tra cultura e storia, viene postulato il carattere ordinato, sitemico delle culture, fino a far coincidere il concetto di cultura con quello di struttura (come insieme dei rapporti simbolici dell'ordine culturale).
2) Culture come entità delimitate: romanticismo e nazionalismi come origine storica dell'assunto; anche la concezione geertziana dell'antropologia come interpretazione di interpretazioni, con il lavorio di traduzione tra mondi culturali che richiede, presuppone una concezione delle culture come universi delimitati. Lo stesso presupposto si ritrova nell'approccio di Victor Turner ai sistemi rituali Ndembu (La foresta dei simboli, 1967) e nella ricostruzione storico-teorica della disciplina proposta da John Beattie (Uomini diversi da noi, 1964): le culture sono sistemi coerenti, sono correlate a specifici gruppi umani, che a loro volta si identificano e distinguono in base alla loro rispettive culture. Sherry Ortner, discutendo (1984) gli approcci alla globalità della political economy, rivendica l'etnografia di piccola scala come specificità dell'antropologia, insieme con la necessità di valorizzare il carattere sistemico e relativamente autonomo delle realtà locali indagate.
3) Tradizione-modernità: l'intreccio tra questa opposizione e la 'cultura' risale anch'essa alle formulazioni romantiche sul popolo-nazione; la tradizione risulta associata al passato, la cultura/tradizione è qualcosa di dato, con una propria fisionomia, che viene trasmesso tra le generazioni, più o meno inalterato, la cui condivisione fonda identità. Critiche alla concezione della tradizione come qualcosa di orientato dal passato al presente: è il presente che sceglie il proprio passato e costruisce la propria tradizione; Eric Hobsbawm, Terence Ranger, L'invenzione della tradizione (1983); Gérard Lenclud: la tradizione come filiazione inversa (1987); Hermann Bausinger (e Stefano Cavazza, Piccole patrie 1997): il folklorismo come oggetto di studio alla pari del folklore; Bruce Lincoln, Pietro Clemente (1977-1998): citazioni, note e bibliografie dei saggi scientifici come costruzione di una tradizione disciplinare, di un passato disciplinare in cui riconoscersi.
James Clifford (nonostante l'assunzione a emblema dell'immagine di Amitav Ghosh del "villaggio rurale tradizionale come sala d'aspetto di un aeroporto" e nonostante la consonanza con le posizioni anti-sostantiviste e anti-primordialiste di Arjun Appadurai sul tema della cultura) cede alla tentazione della metafora biologista dell'ibridismo, che presuppone organismi distinti e definiti che, congiungendosi, producono mescolanze.
Liisa Malkki si occupa di terreni e gruppi instabili e provvisori come i campi profughi e i rifugiati, ma sembra considerarli anomalie rispetto a un quadro antropologico 'normale' fatto di stabilità e continuità; è colpita dalla presenza di libri di Stendhal nella casa di un leader dei profughi Hutu in Tanzania e di quelli di Salinger tra le rovine di una casa bombardata a Baghdad; lo sarebbe altrettanto da una copia del Mahbaharata in una casa di un politico di New York? Oppure il presupposto è che 'loro' sono inscatolati nelle 'culture' al plurale, e 'noi' abbiamo la nostra 'cultura/civiltà', al singolare, onnicomprensiva e universale?

venerdì 17 aprile

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

Crehan, Gramsci, cultura e antropologia (cap. 4: Cultura e storia; Cap. 5: Cultura subalterna). Per Crehan, ai tre assunti sulla nozione di cultura che attraversano tutta la storia del pensiero antropologico possono simmetricamente corrispondere (e fungere da 'correttivi') altrettanti aspetti delle concezioni gramsciane, come risultano da una mappatura degli usi che Gramsci fa del concetto di cultura. Dunque per gli antropologi 1) le culture sono sistemi modellati secondo logiche proprie; 2) le culture sono entità delimitate; 3) l'opposizione fondamentale utile per caratterizzare le culture delle società 'del Sud' è quella tra tradizione e modernità - per Gramsci invece 1) i mondi culturali subalterni sono tutt'altro che sistemi coerenti; 2) l'oggetto primario di interesse non sono 'le culture', ma i rapporti di potere e le relazioni tra gruppi sociali, fluidi e mutevoli, da delimitarsi in funzione di questioni e obiettivi specifici; 3) l'opposizione fondamentale è quella tra dominanti e dominati. Tutto questo appare fondato e ragionevole, ma due asimmetrie vanno tenute presenti, una relativa all'impegno conoscitivo e l'altra all'oggetto della conoscenza. L'impegno conoscitivo dei demo-etno-antropologi è 'disinteressato' e non ha di norma fini pratici di intervento sulle situazioni studiate, mentre quello di Gramsci è del tutto 'interessato', in funzione della trasformazione dell'esistente: questo spiega perché lui non avesse l'atteggiamento di voler "riscattare le vite emarginate dalla condiscendenza della modernità" (atteggiamento proprio di molti antropologi, e condiviso con storici 'militanti' come Edward P. Thompson, o Nuto Revelli e Sandro Portelli), dato che voleva lavorare al riscatto sociale degli emarginati, passando anche per la critica della loro subalternità culturale. Quanto all'oggetto della conoscenza, va tenuto presente, ragionando degli usi del concetto di cultura, che gli antropologi (e gli etnologi) possono interessarsi dell'intero complesso di fatti culturali di intere comunità (cultura materiale, economia, parentela, musica e narrativa comprese, per fare degli esempi), mentre Gramsci si occupa delle articolazioni interne delle società occidentali complesse, concentrando l'attenzione sugli strati socio-culturalmente subalterni e sugli aspetti 'valoriali' e simbolico-comunicativi della cultura (religiosità, filosofia spontanea, morale, concezioni del mondo e della vita).
Gramsci è un politico: vuole trasformare la società; è marxista: le classi sono le protagoniste della storia; per trasformare la società bisogna portare al potere le classi subalterne, e per riuscirci bisogna prima trasformare le classi subalterne; 'cultura' è il modo in cui la classe è vissuta: per trasformare le classi subalterne occorre trasformarne la cultura; gli intellettuali sono quelli che possono lavorare a costruire una cultura (neo-)(contro-)egemonica; il marxismo può costituire il quadro complessivo di riferimento per una nuova integrale concezione del mondo, che ricomprenda e superi le vette della cultura (ora) egemonica: il pensiero economico inglese, il pensiero filosofico tedesco, il pensiero politico francese.
La cultura è il modo in cui la classe è vissuta, cioè come ci si immagina il proprio presente e il possibile futuro (ricordiamo che decenni dopo Appadurai parlerà dell'immaginazione come fatto sociale, considerandola una caratteritica della modernità globale). Cultura e storia: per Gramsci la cultura è storia; in qualunque accezione ne parli è sempre qualcosa di mobile e in formazione, a seconda delle interazioni tra tempi, luoghi e fenomeni sociali; non c'è mai una accezione di culture come entità distinte e delimitate, la cultura è sempre qualcosa di contestuale. Cultura reale come azione sul mondo, capacità di trasformare il mondo.
Egemonia e subalternità sono nozioni complementari; i due concetti si situano agli estremi del continuum dei rapporti di potere. Il fatto che Gramsci usi l'aggettivo 'subalterno' (che rimanda a questioni di rapporti di potere) per caratterizzare gruppi sociali e fatti culturali è indicativo della predominanza dell'aspetto politico nelle sue interpretazioni.

martedì 21 aprile

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prima parte
seconda parte

Crehan, Gramsci, cultura e antropologia (Cap. 5: Cultura subalterna). Ragionevolmente manca, nei Quaderni, una definizione univoca di "egemonia". I Quaderni sono un laboratorio di pensiero, e concetti come questo sono strumenti di lavoro: "egemonia" per Gramsci è il nome di un problema che gli interessa approfondire, quello della costruzione e della gestione di apparati di consenso che favoriscano alleanze e neutralizzino opposizioni intorno a un ceto sociale che si afferma (o si vuole affermare) come dirigente. Si può dire, con una proporzione, che egemonia : consenso = dominio : coercizione, ma in realtà i rapporti di potere sono un continuum di cui consenso e coercizione costituiscono gli estremi, e in cui egemonia e dominio sono intrecciati in una rete di relazioni. Così abbiamo dei passi dei Quaderni in cui la società civile è il 'luogo' del consenso e dell'egemonia e lo Stato, o società politica, quello della coercizione e del dominio, ma ne abbiamo altri in cui lo Stato sussume entrambe le funzioni (dove si parla di "Stato nel significato integrale: dittatura+egemonia"; o dove ci si riferisce alla politica scolastica, momento fondamentale di costruzione ed esercizio di egemonia, che è gestita dallo Stato).
L'interesse di Gramsci per il folklore è testimoniato dal fatto che (probabilmente) nel 1935 egli costituì uno dei quaderni 'speciali', cioè monografici, intitolato appunto Osservazioni sul "Folklore". Erano solo sette pagine, che riunivano, rielaborandole, due note stese tra la fine del 1929 e il 1930; nel 1950, nell'ambito della prima edizione antologica dei Quaderni, uscì il volume Letteratura e vita nazionale, con una sezione che riprendeva il titolo gramsciano (Osservazioni...) e che comprendeva le due note del 1935 e altre due, sullo stesso tema, databili tra la seconda metà del 1931 e il 1932 [scarica da qui il .pdf]. Si tornerà in seguito su queste pagine gramsciane. Notiamo intanto che da esse si ricavano alcuni elementi su cosa Gramsci intendesse per 'folklore': è una concezione del modo; di determinati strati della società; (ossia del) popolo, cioè l'insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni società; in contrapposizione - implicita, meccanica, oggettiva - con le concezioni del mondo ufficiali; in stretto rapporto con il senso comune; (si presenta come) un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia.
Sono definizioni svalutative, rispetto a ciò che è proprio delle classi subalterne? Confrontiamole con quello che Gramsci diceva parlando anche di se stesso, in una lettera alla cognata Tania del 5 ottobre del 1931: "A quante società appartiene ogni individuo? E ognuno di noi non fa continui sforzi per unificare la propria concezione del mondo, in cui continuano a sussistere frantumi eterogenei di mondi culturali fossilizzati?". Sono le stesse espressioni. Dunque non svalutazione, men che meno disprezzo, ma tentativo di comprendere l'esistente, per poi trasformarlo ("Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà"). Ricordiamo l'attenzione dedicata al caso di Davide Lazzaretti e del 'lazzarettismo', svalutato dall'intellettualità ufficiale, e invece meritevole di una "analisi politico-storica", proprio per l'eterogeneità delle componenti culturali che vi confluivano, da un lato, e per la sua (pur provvisoria) 'effettualità' dall'altro, cioé rappresentatività socio-culturale, testimoniata dal consistente seguito popolare che ebbe.
Cenni su senso comune e buon senso, su concezioni del mondo esplicite e implicite; possibile contrasto tra 'pensare' e 'operare'; egemonia subita dai subalterni in tempi 'normali', e contestata nei momenti in cui, con la lotta e l'organizzazione, riescono a esprimere una alternativa; l'uomo attivo di massa conosce il mondo trasformandolo, ma la coscienza di questo, e del suo legame con tutti gli altri uomini nella sua stessa condizione e posizione, resta implicita nel suo operare, mentre a livello esplicito egli afferma adesione a concezioni acriticamente assorbite dall'ambiente, che lo legano ai gruppi sociali dominanti, dei quali socialmente non fa parte.

venerdì 24 aprile

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prima parte
seconda parte

[in risposta a una richiesta di chiarimenti:] Per Gramsci, cosa si può riutilizzare, conservare, salvare della cultura popolare e subalterna nella costruzione di una cultura nuova, di una nuova concezione del mondo e della vita, non più subalterna? Gramsci non propone ricette, liste della spesa, con elenchi di cosa prendere e cosa lasciare; non pare incline a prefigurare i dettagli del mondo come dovrebbe essere. Certo non vuole buttare via il bambino con l'acqua sporca; e neanche l'acqua, finché è l'unica che c'è; forse si può dire che il suo atteggiamento è di starci dentro, in quell'acqua, sporca o non, e aiutare il bambino a crescere, e intanto cercare di migliorare la pulizia dell'acqua, anche. E' un atteggiamento che pare di poter esemplificare ad esempio con una nota del Quaderno 16 (databile al 1933-34) in cui, a partire da riflessioni critiche sulla storia del marxismo, ragiona sui rapporti tra intellettuali e masse, tra cultura popolare e alta cultura, in una visione dinamica e storicamente situata di queste relazioni [scarica da qui il .pdf].
Crehan, Gramsci, cultura e antropologia (Cap. 6: Intellettuali e produzione della cultura; Cap. 7: Gramsci ora). Discutendo dei rapporti tra sentire, comprendere e capire, e di quelli tra spontaneità e direzione consapevole, Gramsci allinea sul lato del 'popolo' il 'sentire', le 'passioni elementari', la spontaneità, l'esperienza quotidiana, il senso comune, l'istinto ("acquisizione storica primitiva ed elementare"); ma gli intellettuali e i dirigenti, che sono invece quelli che 'sanno', non possono fare "politica-storia" senza una "connessione sentimentale" con il '"popolo-nazione" e se si pongono in opposizione con i sentimenti spontanei delle masse. C'è differenza solo di grado, di quantità e non di qualità, tra sentimenti spontanei delle masse e concezioni del mondo coerentemente elaborate dagli intellettuali/dirigenti.
Anche nell'identificazione dei gruppi sociali (come in quella dei fatti di cultura) Gramsci propone definizioni differenziali, contestuali, cioé non basate su liste di contenuti e proprietà, ma su posizioni relative. Così, gli intellettuali (come del resto gli operai e i proletari) non si definiscono per l'"intrinseco" delle attività che svolgono e per le loro 'qualità', ma per l'insieme dei rapporti sociali in cui vengono a trovarsi e per la loro funzione in essi: gli intellettuali sono quelli che hanno funzione direttiva e organizzativa, quelli che 'gestiscono' socialmente la conoscenza (oltre che produrne; ma tutti ne producono, anche se in forme molto differenziate, perché tutti pensano). Intellettuali organici e intellettuali tradizionali.
Gramsci ora: che letture di Gramsci circolano attualmente tra gli antropologi? che usi si fanno del suo pensiero?
Innanzitutto Crehan sottolinea che Gramsci è conosciuto tra gli antropologi di lingua inglese prevalentemente in modo indiretto. Una delle maggiori fonti di questa conoscenza indiretta è quanto ne disse Raymond Williams in Marxism and anthropology (1977), e questo ha portato da un lato a ridurre Gramsci al teorico dell'egemonia, e in secondo luogo ad avere di questa nozione una visione a sua volta riduttiva, 'idealistica' dice Crehan, limitata al campo delle credenze e delle idee; un Gramsci addomesticato, di cui si tende anche a mettere tra parentesi l'ispirazione marxista.
Un antropologo che invece con il marxismo ha fortemente dialogato è stato Eric Wolf, ed è un antropologo che ha rifiutato la concezione di 'cultura' come 'entità circoscritta', anche se ha voluto mantenerne l'idea di coerenza interna; rispetto all'impostazione di Gramsci, quella di Wolf appare ancora legata a una visione più tradizionale delle relazioni tra struttura e sovrastruttura.
Infine Crehan discute due ricerche etnografiche in cui il dialogo con Gramsci dei loro autori appare particolarmente efficace e produttivo: quella di Matthew Gutman sulle rappresentazioni della mascolinità messicana in ambito urbano contemporaneo, in cui è resa operativa la categoria di 'coscienza contraddittoria' (scarto tra una concezione del mondo esplicita e una implicita); e quella di Roger Keesing, centrata sui Kwaio (isole Salomone) e sulla loro lotta per l'"autonomia culturale", in cui la nozione di egemonia riceve una illustrazione efficace nella ricostruzione delle dinamiche dei rapporti di potere che oppongono amministrazioni coloniali e post-coloniali e popolazione Kwaio.
Nella "Nota conclusiva" l'autrice sintetizza aspetti importanti della sua mappatura critica degli usi della nozione di 'cultura' in Gramsci osservando che per lui "ciò che costituisce una 'cultura' dipende dalle questioni specifiche delle quali ci interessiamo": "In breve in Gramsci il contesto è tutto". A illustrare questa sintesi, Crehan cede ancora, conclusivamente, la parola a Gramsci, citando da alcune delle lettere da lui scritte a Tania sulla questione "dei due mondi" (Tania aveva visto nel 1931 il film Due mondi in cui si sosteneva l'impossibilità dell'amore tra una ragazza ebrea polacca e un tenente austriaco, perché l'ebraicità di lei li divideva irrimediabilmente; Tania aveva trovato convincente la tesi del film, e Gramsci polemizzò duramente e a più riprese su questo): le citazioni evidenziano la convinzione di Gramsci che le identità, individuali e collettive, sono costruzioni interamente storiche, e dunque sempre permeabili e mai conchiuse e incomunicanti [scarica da qui il .pdf della lettera del 5 ottobre 1931].

martedì 28 aprile

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prima parte
seconda parte
Le letture italiane di Gramsci. Questo corso propone all'attenzione quarantotto testi di diciassette diversi autori; potevano essere più numerosi, meno numerosi, potevano essere diversi. E' possibile ordinarli in alcuni sottoinsiemi. Un primo gruppo è quello dei brevi testi di Croce (6) da vedersi insieme a quelli di Salinari, Togliatti e Gerratana (siamo tra il 1947 e il 1952): documentano l'atteggiamento di Croce rispetto alla pubblicazione delle opere di Gramsci, e lo scambio polemico che verte sull'individuazione di una linea De Sanctis-Gramsci alternativa a quella, tradizionale, De Sanctis-Croce. Un secondo gruppo è quello degli scritti di de Martino (12), compresi tra il 1949 e il 1954, articolabile al suo interno: «Intorno alla storia del 'mondo popolare subalterno'» e annessa discussione con Luporini; scritti su Gramsci e il folklore; il 'folklore progressivo'; la linea De Sanctis-Croce-Gramsci. Un terzo gruppo è quello degli scritti di Cirese (15), compresi tra il 1949 e il 2008; tra questi possiamo distinguere: i primi (1949-1951) di carattere 'militante'; quelli tra il 1959 e il 1980, cioé il periodo in cui Cirese cerca di liberare la nuova demologia dall'ipoteca della gracilità teorica che ha storicamente caratterizzato gli studi di folklore italiani (al sottoinsieme 'ciresiano' può associarsi, come una delle sue fonti ispiratrici, l'intervento di Santoli del 1951); lo scritto del 2008, che testimonia di un atteggiamento di ripensamento critico a autocritico sulle interpretazioni dei fatti socio-culturali ispirate a posizioni politiche di sinistra, che Cirese ha maturato nei suoi ultimi decenni. Come piccolo gruppo a sé possiamo considerare i due saggi di Lombardi-Satriani, impegnati nel dialogo con Gramsci per una ipotesi di valorizzazione in chiave contestativa delle culture subalterne. Infine il gruppo dei saggi più recenti (2008-2013), incentrati su percorsi di rilettura del posto che Gramsci ha avuto nella storia degli studi italiani, ma anche dedicati alle relazioni possibili tra temi gramsciani e studi antropologici sulla contemporaneità.
Consideriamo il primo gruppo di testi. Croce scrisse, tra il 1947 e il 1950, cinque brevi testi dedicati alle prime 'uscite' gramsciane, dal volume delle Lettere dal carcere al quarto di quelli dei Quaderni (Note sul Machiavelli). Nel primo di questi scritti, sul volume delle Lettere, Croce è senza riserve elogiativo nei confronti di Gramsci, come uomo e uomo di pensiero, dichiara di accettare tutti i suoi molti giudizi su uomini e libri, lo associa alla tradizione dei "nostri grandi pensatori" (Tommaso d'Aquino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giambattista Vico...), additandolo ad esempio per i giovani comunisti; peccato però che per questi, per i comunisti, Gramsci sia solo "il vuoto suono del nome e l'abuso irrispettoso che se ne fa per una polemica insipida, benché di mala fede". Infatti "gli odierni intellettuali comunisti italiani troppo si discostano dell'esempio del Gramsci, dalla sua apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse, dal suo scrupolo di esattezza e di equanimità, dalla gentilezza e affettuosità del suo sentire, dallo stile suo schietto e dignitoso". Questa impostazione, di voler separare Gramsci dai comunisti viventi, Croce la manterrà nei successivi interventi sui Quaderni, ma esprimendosi con toni di crescente fastidio, e aggiungendo una demolizione del contenuto dei Quaderni stessi: i comunisti hanno reso cattivo servizio a Gramsci, meglio avrebbero fatto ad affidarne il ricordo solo alle "nobili Lettere dal carcere", i Quaderni non essendo che "appunti di osservazioni e di dubbii che egli segnava nelle sue letture"; soprattutto, non si può parlare, per essi, di "cultura" e di "filosofia", ma solo di politica, perché per il materialismo storico cultura e filosofia sono solo gusci per gli interessi di classe, e il suo unico fine è, per sua dichiarazione, "cangiare il mondo". Cultura e filosofia siano lasciate a chi in loro crede.
I testi del 1952 (Croce morirà nel novembre di quell'anno) documentano un episodio di 'battaglia delle idee', una articolazione della lotta per l'egemonia in campo culturale che il PCI di Togliatti andava conducendo, anche nel nome di Gramsci. L'oggetto del contendere è Francesco De Sanctis, di cui Salinari e poi Togliatti e Gerratana (sulla scorta della lettura che ne dava Gramsci stesso) rivendicano il diritto a porsi come veri continuatori e autentici interpreti, mentre Croce giudica tale pretesa una infondata invenzione, e considera se stesso unico legittimo erede di De Sanctis.
martedì 5 maggio

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prima parte
seconda parte
Ernesto de Martino: «Intorno alla storia del 'mondo popolare subalterno'» (anche con riferimenti a Giovanni Pizza, «Gramsci e de Martino», 2013). Cenni biografici [scarica da qui il .pdf di una scheda biografica essenziale]. Il confronto con la figura e le posizioni di Croce e l'attenzione specifica per la storia e la situazione italiane come terreno di verifica per le proprie ipotesi progettuali sono elementi che de Martino ritrova in Gramsci. De Martino legge subito e commenta i volumi delle opere di Gramsci man mano che escono, a partire dal 1947, ed elegge Gramsci a suo interlocutore per una interpretazione 'creativa' del marxismo. Possiamo considerare che per de Martino il lavoro etnografico abbia avuto la funzione di quella che Gramsci chiamava 'filologia vivente'. La personalità e la biografia intellettuale di de Martino concretizzano, per molti aspetti, quel "passaggio dal sapere, al comprendere, al sentire, e viceversa" che Gramsci considerava necessario per gli intellettuali in rapporto di adesione organica con il popolo-nazione, e necessario per fare "politica-storia". Nelle ricerche che de Martino conduce tra il 1949 e il 1959, e che produrranno le tre monografie Morte e pianto rituale nel mondo antico nel 1958, Sud e magia nel 1959, La terra del rimorso nel 1961, si può osservare come si trovi praticata una posizione fortemente sostenuta da Gramsci, e cioé che nel fare storia della cultura non si debba separare la storia delle classi subalterne da quella delle classi dominanti, non si debba considerare la cultura delle classi subalterne isolatamente rispetto al contesto nazionale.
«Intorno a una storia del mondo popolare subalterno» esce su Società (rivista vicina al PCI) nel 1949. E' il saggio più 'politico' di de Martino, provoca un dibattito in cui intervengono diversi interlocutori, e sulla stessa Società Cesare Luporini gli contesta una errata interpretazione di Gramsci, la sottovalutazione della classe operaia e dell'Unione Sovietica nel loro ruolo di guide del processo rivoluzionario a livello, rispettivamente, nazionale e internazionale, e più in generale un certo perdurante crocianesimo nella concezione della storia e della cultura. Nel 1948 de Martino aveva pubblicato Il mondo magico, e i due testi sono associabili a segnare il momento di maggior 'azzardo' teorico di de Martino, nel formulare un progetto di ricerca e di intervento di cui tanto il marxismo quanto il crocianesimo dovevano essere 'creativamente' utilizzati; fu però anche il momento di maggior isolamento di de Martino (su questo si veda l'Introduzione di Cesare Cases alla ristampa del 1973 del Mondo magico), attaccato per lesa ortodossia tanto da Croce quanto dai marxisti; nel giro di qualche anno de Martino ritratterà esplicitamente alcune delle prese di posizione del 1948-49, pur proseguendo con le linee di fondo del suo originale progetto di lavoro.
"Mondo popolare sulbalterno": popoli coloniali e semicoloniali + proletariato operaio e contadino delle nazioni egemoniche. Si unificano, nella considerazione di de Martino, sia l'oggetto di studio/soggetto politico (i subalterni occidentali e non occidentali) sia gli specialismi dello studio delle differenze culturali (folklore e etnologia; de Martino preferisce sempre parlare di 'etnologia' e non vede la necessità di una scienza autonoma del folklore).
Critica dell'etnologia borghese: è naturalista, cioé considera i primitivi come oggetti di una scienza naturale dell'uomo, e questo "umanesimo circoscritto", questa incapacità di intendere il problema dei primitivi come problema 'storico', è connesso alla dipendenza dell'etnologia tradizionale dall'imperialismo colonialista (de Martino riprende qui l'impianto polemico di Naturalismo e storicismo nell'etnologia del 1941, ma vi aggiunge la chiave di lettura politica).
Che insegnamenti può dare l'etnologia sovietica, cioè lo studio della cultura del popolo nella società in cui il popolo non è più subalterno? Primo, mostra in essere la possibilità di un rinnovato umanesimo, un umanesimo allargato, integrale, come non è possibile conseguire da parte dell'etnologia (e della cultura) borghese: lo mostra nell'immagine di Maksim Gorki accanto a Suleiman Stalsky, vecchio analfabeta poeta daghestano, "Omero del Ventesimo secolo", alla presidenza del primo congresso degli scrittori dell'Unione Sovietica nel 1934 [vedili qui]. Secondo, indica che bisogna tenere uniti il compito teoretico della comprensione e quello pratico della trasformazione, lavorando per combattere gli aspetti arcaici delle culture popolari e per favorire lo sviluppo di quelli progressivi.
venerdì 8 maggio

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

Ernesto de Martino: «Intorno alla storia del 'mondo popolare subalterno'» (1949) e «Note lucane» (1950). Nella "purezza della teoresi" (come dirà nella risposta a Luporini) de Martino aveva individuato (in Naturalismo e storicismo nell'etnologia e nel Mondo magico) i limiti della etnologia tradizionale, criticandone esplicitamente il naturalismo, e, implicitamente, aveva colto i limiti del crocianesimo, 'storicizzandone' le categorie; aveva anche individuato nel "dramma esistenziale della presenza che rischia di non esserci nel mondo" la chiave interpretativa del mondo dei primitivi, che consentiva di riguadagnarlo alla considerazione storiografica; una volta abbracciati il marxismo sul piano teorico, e la causa politica del proletariato su quello pratico, da un lato gli si era chiarita la natura di classe dei limiti dell'umanesimo borghese (nel 1953, in «Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni», assocerà a questa critica esplicitamente anche Croce, che con le sue posizioni sui "popoli di natura", che "zoologicamente e non storicamente sono uomini" [parole di Croce], mostrerà la "spietata crudezza" della "ideologia borghese verso i popoli coloniali" [parole di de Martino]), e dall'altro il dramma della presenza "si dichiarava con sempre maggiore evidenza come il dramma di essere respinti dalla «storia»". Questa 'storia' che de Martino pone tra virgolette è quella in cui il mondo popolare subalterno preme per entrare, quella in cui vuole irrompere, e irrompe di fatto: è storia 'per sé' (e non solo 'in sé'), storia come valore, e non solo cronologia di eventi o mera dinamica di interessi economici (storia come pensiero e come azione, come si intitolava un libro di Croce del 1938 che fu per de Martino un punto di riferimento importante).
De Martino dice che l'alta cultura deve comunque storicizzare il popolare e il primitivo (p. 421), rapportandosi all'imbarbarimento che l'irruzione nella storia del mondo popolare subalterno comporta (come vedeva anche Gramsci, dice de Martino, quando parlava della "fase popolaresca" della filosofia della prassi). Deve farlo, usando 'pietà storica' verso l'arcaico e assegnandogli "il suo esatto luogo storico", per evitare che l'"immenso potenziale di energie" che le forme culturali del mondo popolare subalterno hanno in sé venga utilizzato in senso reazionario da sistemazioni ideologiche arcaiste e nuove insieme, come fu il nazismo.
Ma la "alta cultura" a cui de Martino assegna questo compito non può essere quella borghese. Chi la rappresenta è de Martino stesso, che non abbandona il terreno dell'umanesimo storicista, ma ne allarga la capacità di comprensione, grazie all'incontro filosofico e pratico, politico ed etico con il movimento proletario e i suoi teorici, Gramsci compreso.
De Martino spesso si presenta direttamente sulla scena, nei suoi scritti. In «Intorno alla storia...» lo fa sia ricostruendo il senso dell'evoluzione delle sue consapevolezze teoriche, sia rappresentandosi come testimone, come messaggero del mondo popolare subalterno, con l'immagine finale del vecchio saggio pugliese che sulla piazza di Altamura gli affida appunto quel ruolo: "Vai avanti, tu che sai, tu che puoi, tu che vedrai; non ci abbandonare, tu che sai, tu che puoi, tu che vedrai".
Ruolo che torna in «Note lucane», parlando degli abitanti del quartiere povero di Ticarico, la Ràbata; abitanti poveri, poverissimi, ma umani, umanissimi - e già, nonostante tutto, "persone storiche", e che ancora di più "vogliono entrare nella storia", vogliono che le loro storie personali formino tradizione e storia: "eccoli qui, davanti a noi, a raccontarci la loro storia". De Martino è lì per raccogliere queste storie e raccontarle al mondo: "quando scendevo per le viuzze sconnesse del quartiere, uomini e donne uscivano dalle loro tane immonde e mi pregavano di dire, di raccontare, di rendere pubblica la storia dei loro patimenti e della loro fermentante ribellione"; e anche: "Dite, raccontate, che noi cafoni non siamo poi delle bestie, e che quaggiù non c'è soltanto miseria".
«Note lucane»
è pubblicato, ancora su Società, nel 1950, un anno dopo «Intorno alla storia...». Nel mezzo c'è stata la presa di contatto di de Martino con il terreno lucano, con tre soggiorni a Tricarico, ospite di Rocco Scotellaro: è la presa di contatto con il mondo popolare subalterno del Mezzogiorno italiano non più solo da dirigente politico socialista, e da lettore di Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, ma da etnologo. I temi trattati sono gli stessi di «Intorno alla storia...»: il dramma storico della presenza ("...in questo scenario che sembra la negazione della storia vivono alcune migliaia di persone storiche. ... Vivono, ma meglio si direbbe che contendono al caos le più elementari distinzioni dell'essere..."), la irruzione nella storia dei subalterni, coscienti a un tempo della loro condizione miserrima, del loro valore di esseri umani ("Nuie simme a' mamma d'a' bellezza"), dell'esistenza di una possibilità di riscatto, che passa per le vie della politica. Le espressioni di questa coscienza sono ciò che de Martino in seguito chiamerà 'folklore progressivo', e a quanto ne riporta dando voce agli uomini e alle donne della Ràbata tornerà a riferirsi più volte.
Oltre che che nel ruolo di testimone e portavoce, de Martino si espone anche nel ruolo di se stesso: l'etnologo che si fa "etnologo di stesso", uomo a confronto con gli uomini e con le donne della Ràbata, uomo che ha provato, in questo confronto, un "sentimento complesso", fatto di "angoscioso senso di colpa", "vergogna" e infine "collera", "la grande collera storica solennemente dispiegantesi dal fondo più autentico del proprio essere": "la mia collera è proprio la stessa di quella di questi uomini che lottano per uscire dalle tenebre del quartiere rabatano, e la mia lotta è proprio la loro lotta".
Su questo modo di intendere la relazione con i propri interlocutori sul terreno de Martino tornerà in termini analoghi anche nel testo del 1953 che abbiamo già citato («Etnologia e cultura nazionale...»): "io entravo nelle case dei contadini pugliesi come un 'compagno', come un cercatore di uomini e di umane dimenticate istorie, che al tempo stesso spia e controlla la sua propria umanità, e che vuol rendersi partecipe, insieme agli uomini incontrati, della fondazione di un mondo migliore, in cui migliori saremmo diventati tutti, io che cercavo e loro che ritrovavo".

martedì 12 maggio

audio della lezione:
prima parte
seconda parte
Ernesto de Martino: gli scritti sul 'folklore progressivo' e quello del 1954 pubblicato su Lucania; la linea De Sanctis-Croce-Gramsci. Nel 1950 esce il volume dei Quaderni gramsciani intitolato Letteratura e vita nazionale: contiene anche le pagine delle "Osservazioni sul folclore", sulle quali si concentra l'interesse di chi si occupa allora di cultura popolare. Nel giugno 1951 si tenne a Roma un dibattito sulle 'Osservazioni' gramsciane, per il quale furono relatori Paolo Toschi, Vittorio Santoli e Ernesto de Martino (vedi quanto ne dice Cirese nel 1976 in «Scritti su Gramsci e le culture subalterne», che sta nelle «Postille» aggiunte a «Concezioni del mondo...»); Santoli ne trasse «Tre osservazioni su Gramsci e il folclore», pubblicato nel 1951 su Società, e a quel convegno si riferiscono gli scritti di de Martino indicati tra le Letture di questo corso con le sigle 1951-1992, 1951a e 1951b. E' in questa occasione che de Martino formula il concetto di "folklore progressivo", per riferirsi a quelle espressioni della vita culturale popolare che contengono prese di posizione critiche nei confronti dell'organizzazione sociale vigente e della politica delle classi dominanti, e che manifestano consapevolezza, da parte del mondo popolare subalterno, del proprio ruolo e del proprio valore sul piano storico, umano, culturale. Ciò su cui interviene de Martino in questi scritti e nei successivi pubblicati sul Calendario del popolo, non è tanto lo specifico delle pagine delle "Osservazioni sul folclore", quanto il più generale tema che interessa Gramsci, quello del rapporto tra alta cultura e cultura popolare, tra intellettuali e classi popolari. Gramsci sottolineava quanto la situazione italiana fosse caratterizzata da una frattura fra quegli elementi, e de Martino argomenta che nell'Italia del dopoguerra si potevano notare fenomeni incoraggianti che andavano nella direzione di rendere più dinamica la vita culturale nazionale, con il contributo 'dal basso' del folklore progressivo, e con quello 'dall'alto' dei numerosi intellettuali che nella letteratura, nella pittura, nel cinema finalmente dedicavano attenzione al ruolo e alla vita delle classi popolari.
L'intervento del 1954 è significativo soprattutto perché testimonia di un cambio di registro da parte di de Martino. Raccomandando ai redattori della neonata rivista Lucania di fare inchiesta sulla realtà culturale della loro regione, non fa più alcun riferimento a un 'folklore progressivo' in atto, ma al contrario sostiene che bisogna documentare la "miseria culturale" del Mezzogiorno, e raccogliere biografie e autobiografie dei contadini (l'ispirazione viene chiaramente da Contadini del Sud di Rocco Scotellaro, appena pubblicato, postumo, a cura di Manlio Rossi-Doria; ma de Martino non manca di polemizzare con lo stesso Scotellaro e con Rossi-Doria e Carlo Levi, in linea con un recentissimo duro intervento polemico di Mario Alicata).
Su un'altra rivista nata in quegli anni, La Lapa. Argomenti di storia e letteratura popolare, diretta e redatta da Eugenio Cirese con la collaborazione del figlio Alberto, de Martino fa un brevissimo ma significativo intervento. Per il primo numero della rivista, uscito nel settembre del 1953, de Martino scrive una lettera, che viene pubblicata come primo articolo, subito dopo l'editoriale programmatico, in cui, nel lodare come "eccellente" l'idea di "di un periodico sulla vita culturale tradizionale delle classi popolari" sottolinea come l'occuparsi di questo tema abbia però "bisogno di essere ancora metodologicamente fondato e di giustificarsi in modo serio e persuasivo di fronte alla cultura nazionale". Questa fondazione può avvenire solo in dialogo con le "migliori tradizioni culturali" nazionali, e per l'Italia questo significa "dialogare con la tradizione De Sanctis - Croce - Gramsci, cioè con la nostra più recente tradizione storicista". Solo questo dialogo può radicare gli studi etnologici italiani nella vita culturale, e solo questo radicamento può dare senso alla raccolta del materiale etnologico nazionale ('etnologia' e 'materiale etnologico' sono espressioni che de Martino preferisce rispetto a 'folklore'); questo va detto anche perché la "infatuazione" per la 'applied anthropology' americana pare costituire per alcuni studiosi la sola motivazione per avvicinarsi all'etnologia, facendone così, appunto, degli "sradicati".
La rivista, pubblicando con grande evidenza la lettera di de Martino, l'accompagna con una nota, firmata "n.d.r." ma scritta da Alberto Cirese, che sottolinea l'importanza sia di non retrocedere rispetto alle posizioni raggiunte (la tradizione De Sanctis - Croce - Gramsci) sia di non isolarsi rispetto a quanto "si svolge fuori dei confini (geografici e ideologici) della nazione". E infatti la rivista pubblica anche, qualche pagina dopo, uno scritto di Tullio Tentori «Sullo studio etnologico delle comunità» (siamo dunque pericolosamente vicini alla 'applied anthropology'), presentandolo come un implicito avvio di discussione. E la discussione la riprende esplicitamente Paolo Toschi, che nel numero seguente risponde a de Martino, sostenedo che le ricerche di Pigorini, Mochi, Loria, Pettazzoni, e quelle di Comparetti, D'Ancona, Novati, Barbi, Pitrè valgono bene a fondare, rispettivamente, gli studi etnologici e quelli folklorici italiani, perché le buone opere, oltre alle "elucubrazioni teoriche", recano valido contributo metodologico. De Martino naturalmente mantiene il punto, facendo osservare che non la quantità delle ricerche svolte era in questione, ma il loro mancato legame con la corrente più 'europea' degli studi italiani.
venerdì 15 maggio

audio della lezione:
prima parte
seconda parte
Croce, Gramsci, Lévi-Strauss: si può ragionare sulle differenze e sulle vicinanze (teoriche e di approccio metodologico) tra Ernesto de Martino e Alberto Cirese, a partire dal confronto che essi hanno stabilito con ciascuno di quei tre autori. Croce: per de Martino è rimasto sempre un punto di riferimento, un termine di paragone, da incrementare, da criticare duramente, ma non da accantonare; per Cirese è stato un punto di partenza, per imboccare poi altre strade, anche grazie a Gramsci (salvo recuperarne qualche aspetto: per l'ultimo Cirese la dialettica dei distinti crociana era preferibile al materialismo dialettico marxista); de Martino proponeva la tradizione De Sanctis-Croce-Gramsci, mentre per Cirese Gramsci era piuttosto un antidoto al crocianesimo. Lévi-Strauss: in La fine del modo de Martino legge e si scontra con il Lévi-Strauss di Tristi tropici, mentre il Lévi-Strauss interlocutore di Cirese è l'autore di Le strutture elemntari della parentela e il sostenitore della 'unità della mente umana'. Gramsci per de Martino: una lettura più 'larga' della sua opera; ispirazione soprattutto politica («Intorno a una storia del mondo popolare subalterno», il 'folklore progressivo'); interesse centrale per il tema degli intellettuali: alta cultura - cultura popolare; gramscismo implicito: storia della cultura (religiosa) meridionale come storia unitaria di élites e classi subalterne; a-gramscismo: dramma storico della presenza, 'scandalo etnografico', La fine del mondo. Gramsci per Cirese: lettura più 'stretta', concentrata sulle 'Osservazioni sul folclore'; ispirazione teorica: dislivelli di cultura, cultura egemonica e culture subalterne; interesse centrale per il tema degli intellettuali: alta cultura - cultura popolare, e il progetto di una vita Mondo culto e mondo popolare. Materiali per una storia; gramscismo implicito: rapporto alto-basso, la circolazione culturale; a-gramscismo: analisi formal-strutturali / inter-intelligibilità delle culture / unità della mente umana / elementarmente umano (il Cirese antropologo culturale, insomma).
Alberto Mario Cirese: cenni biografici [scarica da qui il .pdf di una scheda biografica essenziale; qui puoi vedere una videointervista del 2001]. 1949: «Il 'nuovo intellettuale'»; qui non si parla di folklore e di cultura popolare, ma di un nuovo modello di intellettualità, ispirato alle indicazioni di Gramsci e che innovi rispetto a quelle di Croce: dunque un intellettuale mescolato alla vita pratica, costruttore, organizzatore, persuasore, dirigente (specialista+politico), e non più confinato all''intrinseco' dello specialismo di ogni branca di attività intellettuale. 1951: «Il volgo protagonista» e «Come mi suoni, commare, ti ballo» ricordano temi e approccio degli interventi di de Martino di quegli stessi anni (rispettivamente, «Il folklore progressivo» e «Note lucane»). La considerazione più approfondita e di taglio più teorico sulle note gramsciane inizia qualche anno dopo, e possiamo dire che si sviluppa tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Settanta.
E' relativa all'anno accademico 1959/60 la dispensa per il corso cagliaritano di Storia delle tradizioni popolari Orientamenti generali nello studio delle tradizioni popolari, un capitolo della quale è intitolato «Orientamenti storicistici attuali: le 'Osservazioni sul folklore' di Antonio Gramsci». In questa prima occasione di riflessione più distesa sulle note di Gramsci osserviamo da un lato che rispetto al complesso delle riflessioni gramsciane l'attenzione di Cirese è già concentrata sulle pagine delle 'Osservazioni', e dall'altro che sono già esplicitati alcuni dei temi che Cirese giudicherà importanti per l'elaborazione di una nuova teoria degli studi demologici: innanzitutto la nozione di 'popolo' come 'insieme delle classi subalterne', e dunque un suo ancoraggio alla concreta realtà sociale; poi l'approccio 'posizionale', 'relazionale' di Gramsci: il popolo è l'insieme delle classi subalterne di 'ogni' società esistita, dunque di volta in volta, a secondo dei luoghi e dei tempi di cui ci si occupa, quella nozione andrà riempita di contenuto in base ad analisi 'alla scala'; questo vale anche per i fatti di cultura: il folklore è la concezione del mondo del popolo, definita per associazione con questo ma soprattutto per contrasto con le concezioni 'ufficiali', dunque anche le concezioni del mondo (popolari e ufficiali) non si indentificano per determinati contenuti, ma per differenza; infine, la sottolineatura della 'molteplicità' sociale e culturale del mondo subalterno; tutti questi elementi portano a una rottura irreversibile con le concezioni armonistiche e idilliche del foklore, come riconosciuto anche da Vittorio Santoli.
«Alterità e dislivelli interni di cultura nelle società superiori» è l'intervento a un convegno di etnologia europea tenutosi nel 1965 in Svezia, poi pubblicato in francese nel 1967, in italiano nel 1968 e nel 1972. Il tema qui affrontato è quello della scientificità dello studio dei fatti culturali popolari, che dipende dalla definizione del suo oggetto e da quella dei metodi di indagine che impiega. L'aggettivo 'popolare' e una nozione generica di 'popolo' non garantiscono né unità né specificità (cioé autonomia) a quell'oggetto e a quei metodi. Né basta per questo il semplice catalogo dei fenomeni di cui demologi, folkloristi, etnologi europei si sono occupati nel tempo (racconti, aratri, fuochi sacri, costumi, pratiche magiche, maschere, edifici, canzoni...): questi studi esistono, certo, ma potrebbero essere considerati specializzazioni di discipline maggiori (letteratura, architettura, storia delle religioni, storia dell'arte...; questo aveva sostenuto, ad esempio, il filologo classico Giorgio Pasquali fin dal 1929, in occasione del primo Congresso nazionale delle Tradizioni popolari, a Firenze). Il contributo principale dell'etnologia europea alla conoscenza dell'uomo è l'aver fatto sperimentare dentro la nostra civiltà quella pluralità e alterità culturali che gli studi sui popoli extra-europei mostrano in modo evidente; l'unitarietà dell'oggetto di studio, e la specificità del punto di vista dell'etnologia europea stanno appunto in questo: nella considerazione dell'alterità culturale interna alla nostra civiltà, che può così venire a costituirsi come un complesso ordinato e intelligibile. Queste differenziazioni culturali interne alle società più evolute possiamo chiamarle 'dislivelli di cultura'; sono presenti anche in epoca di forte dinamismo sociale e comunicativo (in gradazioni assai diverse: dalle semplici varietà o variazioni a vere e profonde fratture): pensiamo alle polarità nord-sud, città-campagna, centro-periferia, élites-classi popolari. I fatti di cultura che ci interesseranno saranno individuabili non aprioristicamente in base a determinati contenuti, ma in base alla loro collocazione nel complesso socio-culturale, baderemo non a 'essenze' ma a 'relazioni' di differenziazione, distinzione, opposizione (intese come dati di fatto, non come espressioni soggettive di polemica o contestazione); ci occuperemo di fatti che 'si differenziano da', che 'si oppongono a' (e perciò non della canzone industrializzata, che pure è ben diffusa e 'popolare').
martedì 19 maggio

audio della lezione:
prima parte
seconda parte
Si completa il discorso su «Alterità e dislivelli interni di cultura nelle società superiori»: a) la nozione di 'popolo' va considerata nella sua variabilità storica (concezione relazionale di 'popolo': l'insieme delle classi subalterne di ogni società esistita; Santoli: il 'popolo' dei demologi è una variabile che assume valori diversi in ogni sistema culturale); b) i fatti culturali 'euro-etnici' sono formazioni storiche (i dislivelli interni di cultura si formano per cause storiche, sia oggettive come le distanze e le difficoltà di comunicazione che separano centri e periferie, sia soggettive, come l'esclusivismo culturale dei gruppi egemoni o le resistenze opposte dai gruppi subalterni); c) i fatti culturali euro-etnici mantengono una loro specificità rispetto a quelli di cui si occupa l'etnologia, soprattutto in relazione alla maggiore complessità e articolazione interna delle società occidentali rispetto alla maggior parte delle altre (così, per i fatti culturali euro-etnici riscontreremo un caratteristico intreccio di inculturazione e acculturazione). Tutto quanto detto va poi messo alla prova dei fatti, nella ricerca, per esempio nel confronto tra le due prospettive fondamentali per lo studio dei fatti umani, quella storica e individuante e quella antropologica (o sociologica) e generalizzante.
Il progetto ciresiano di dare nuovo spessore teorico agli studi demologici giunge a compimento con il manuale Cultura egemonica e culture subalterne (che esce nel 1973 nella versione completa e definitiva). Fin dal titolo il libro manifesta il fondamento gramsciano di parti importanti del suo impianto, e il riferimento a Gramsci torna più volte sia nelle definizioni teoriche sia nelle sezioni di storia degli studi, ma da entrambi i punti di vista Cirese dialoga anche con etnologia, linguistica, semiologia, sociologia, filosofia. La demologia è così affrancata dall'ipoteca dell'estetica crociana ed esce dal recinto dell'arcaismo; ha voce, ora, per parlare con le discipline guida delle scienze umane, ma gli oggetti specifici del suo discorso, gli oggetti suoi propri, rimangono quelli della 'civiltà' contadina, e non trovano posto quelli di cui sempre più ormai è fatto il "mondo grande terribile e complicato": urbanesimo, industrialismo, migrazioni, comunicazioni e consumi culturali di massa.
Il saggio «Concezioni del mondo, filosofia spontanea e istinto di classe nelle 'Osservazioni sul folclore' di Antonio Gramsci» è il più approfondito intervento di Cirese su questioni gramsciane. Originariamente era una relazione a un convegno internazionale gramsciano del 1967, viene pubblicato per la prima volta con gli atti di quel convegno nel 1970, e dunque precede Cultura egemonica e culture subalterne. Ma l'edizione principale è quella in volume del 1976, in cui è corredato da diverse Postille, cioè brevi ma impegnativi interventi dedicati a temi specifici, che ampliano aspetti trattati nel saggio, ma soprattutto discutono con vari interlocutori su questi aspetti e anche su temi trattati altrove, compreso Cultura egemonica.
Il volume del 1976 è una raccolta di saggi (Intellettuali, folklore, istinto di classe. Note su Verga, Deledda, Scotellaro, Gramsci) e si apre con una Premessa che contiene due notazioni importanti. La prima è che il libro è presentato come uno stralcio da una raccolta di testi più ampia (Mondo culto e mondo popolare nell'Ottocento e oltre), progettata da lungo tempo, come raccolta di "materiali per una storia degli atteggiamenti ideologici che la borghesia intellettuale italiana ha assunto verso il mondo subalterno"; è una linea di ricerca che Cirese proseguirà fino alla fine del suo lavoro di studioso (ma Mondo culto non vedrà mai la luce, come tale), e che è molto vicina a quella 'storia degli intellettuali' che era stata al centro degli interessi di Antonio Gramsci. La seconda notazione è che le riflessioni contenute nella raccolta (soprattutto nel saggio su Gramsci e relative postille) vengono da Cirese connesse all'urgente "ripensamento in termini marxisti degli studi etno-antropologici in Italia, che assume le vesti di una ri-fondazione"; urgenza condivisa con diversi studiosi, allora, e da altri contestata, e che vide comunque Gramsci al centro dell'attenzione.
Il saggio «Concezioni del mondo...» è un notevole e originale esempio di analisi strutturale delle pagine gramsciane delle «Osservazioni sul folclore» (il riferimento è all'edizione del 1950, dato che l'edizione critica di Gerratana fu pubblicata nel 1975, e il saggio di Cirese era uscito nel 1970; nel libro del 1976 Cirese tiene conto dell'edizione critica in una delle Postille). Il testo di Gramsci è minuziosamente smontato e rimontato, e le caratterizzazioni attribuite alle concezioni del mondo subalterne e a quelle 'ufficiali' confrontate con la costruzione di schemi e tabelle. Il senso dell'operazione è quello di far emergere, di evidenziare intenzionalità significative soggiacenti al testo, che in qualche modo ci fanno comprendere il testo stesso di più e meglio di quanto consenta di fare il semplice 'prenderlo alla lettera'.
venerdì 22 maggio

audio della lezione:
prima parte
seconda parte
A.M. Cirese, «Concezioni del mondo, filosofia spontanea e istinto di classe...»: per Gramsci il folklore è una cosa molto seria, da prendersi sul serio, e perciò 1) le ricerche sul folklore devono passare dalla erudizione alla scienza 2) il folklore non è una serie di bizzarrie, ma una concezione del modo 3) questa concezione del mondo si associa a determinati strati sociali: il popolo, cioé l'insieme delle classi subalterne di ogni società esistita 4) questa concezione del mondo è in contrapposizione (contraddizione, contrasto) con la concezione del mondo propria delle classi egemoni e dominanti. Questi quattro aspetti legittimano e definiscono il folklore come oggetto di studio, ma resta da vedere, nel merito, che valutazione Gramsci dà dei contenuti e delle forme dei fatti culturali folklorici, e in relazione a cosa, e in vista di cosa, dà queste valutazioni. Un primo esame delle note raggruppate come 'Osservazioni sul folclore' produce un elenco di caratterizzazioni negative per contenuti e forme dei fatti culturali folklorici e di corrispondenti caratterizzazioni positive per contenuti e forme dei fatti culturali 'ufficiali'; non potrebbe essere altrimenti, dato che Gramsci si esprime al riguardo in termini programmatici ("il popolo [...] per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate": questo è inevitabile, a causa della sua condizione di subalternità).
Ci sono però anche annotazioni di segno diverso, nelle 'Osservazioni', sui fatti folklorici: alcune caratterizzazioni positive, e alcune attenuazioni di quelle negative. Le prime riguardano il campo della 'morale', del 'folklore giuridico', e sono giudizi sulla tenacia, sulla effettualità, sulla progressività di alcuni fatti o aspetti. Sono caratterizzazioni parziali, non si applicano a tutti i fatti folklorici, e dunque i loro corrispettivi 'negativi' non possono applicarsi a tutti i fatti ufficiali. Perciò l'elenco consuntivo del confronto tra folklore e ufficialità (vedilo a p. 78 del saggio di Cirese) va riorganizzato, e questa riorganizzazione fa emergere contesti soggiacenti, punti di riferimento taciti che si mostrano oltre la lettera del testo gramsciano: il nuovo schema quadripartito (vedilo a p. 86 del saggio di Cirese) mostra tre combinazioni che si riferiscono a situazioni di fatto, e una ('ufficiale e progressivo') che descrive un modello, indica una meta da raggiungere. Dunque lo schema rappresenta un processo, e fa emergere il movimento interno al pensiero gramsciano, con i suoi mutamenti di piani del discorso e di punti di vista. In particolare si può argomentare che quando l'analisi di Gramsci si applica allo stato di cose presenti, il confronto viene fatto tra classi subalterne e 'ufficialità' borghese, e vengono sottolineati gli aspetti 'positivi' che le concezioni dei subalterni riescono a mettere in campo (capacità di resistenza e contrapposizione, elementi di attività, effettualità e progressività, spirito di scissione - in relazione al quale Cirese ritiene si possa sviluppare la nozione di 'istinto di classe', non presente esplicitamente nei Quaderni); quando l'analisi verte sul da farsi per ribaltare la situazione di subalternità dei subalterni attuali, il confronto è tra le caratteristiche delle concezioni di questi ultimi e quelle necessarie alla costruzione di una 'ufficialità' nuova, rappresentata dalla filosofia della prassi (ed è qui che emerge la valutazione programmaticamente negativa del folclore, concezione da superare storicamente, proprio in quanto espressione e indice di una situazione sociale ingiusta).
Arriviamo così al tema del rapporto tra spontaneità e direzione consapevole, tra masse e intellettuali, che viene posto anche dal prendere in esame l'altro ordine di considerazioni sul folklore, per cui Gramsci a volte ne attenua le caratterizzazioni negative associandovi espressioni come "per lo più", "in grande misura" e simili; in questo modo le separazioni qualitative tra negatività folkloriche e positività ufficiali assumerebbero invece la forma di continuità quantitative, e questo sarebbe coerente con quanto esplicitamente Gramsci più volte sostiene: che non possa esserci "opposizione" tra marxismo e "sentimenti 'spontanei' delle masse", ma solo "differenza 'quantitativa', di grado, non di qualità" (Quaderni, p. 330-331), che debba essere possibile il "passaggio dal sapere, al comprendere, al sentire, e viceversa" (Quaderni, p. 1505), che "tutti gli uomini sono 'filosofi' " e che "tra i filosofi professionali o 'tecnici' e gli altri uomini non c'è differenza 'qualitativa' ma solo 'quantitativa' (e in questo caso «quantità» ha un significato suo particolare, che non può essere confuso con somma aritmetica, poiché indica maggiore o minore 'omogeneità', 'coerenza', 'logicità' ecc., cioè quantità di elementi qualitativi)" (Quaderni, p. 1342).
Cirese ritiene però da un lato che queste indicazioni non siano accompagnate da "un preciso criterio di distinzione (non puramente verbale) tra le differenze qualitative (che spezzerebbero l’asserita continuità) e le differenze di quantità di elementi qualitativi (che viceversa non metterebbero in crisi il desiderato legame tra il filosofo 'specialista'e quello 'volgare', tra la 'direzione consapevole' e la 'spontaneità', tra intellettuali e 'semplici', e cioè, per usare termini più correnti e realistici, tra dirigenti e masse, comitati centrali e base, e via dicendo)" e dall'altro che prendendo in esame il complesso delle note gramsciane, prevalgano decisamente osservazioni e valutazioni che vanno nella direzione della separazione qualitativa. Questo metterebbe in causa anche la stessa nozione di 'concezione del mondo', e in particolare la possibilità (non puramente verbale) di definire così tanto il folklore quanto la filosofia della prassi. Ma c'è un'altra risposta possibile, dice Cirese, sempre presente nel testo di Gramsci, ma meno esplicita ed evidente di quella dell'asserita continuità quantitativa tra filosofia spontanea (folklore, senso comune) e concezioni 'ufficiali'. La risposta sta nell'attenzione che Gramsci costantemente pone "a stabilire un costante rapporto tra i fatti culturali e i gruppi sociali che ne sono portatori", e non secondo generalissime distinzioni di classe, ma considerando categorie, gruppi, sottogruppi: "l’impiego che Gramsci fa della nozione di concezione del mondo, almeno quando si tratti di concezioni ‘spontanee’, viene di continuo appoggiato a una fitta rete di richiami alle concrete situazioni sociali, anche se umilissime, di cui il coacervo culturale preso di volta in volta in esame costituisce il 'modo di vedere e di operare'. [...] Così ogni combinazione di elementi culturali che formi il portato di un gruppo sociale comunque identificabile viene a costituire una sorta di ‘unità di fatto’, che può essere guardata dal punto di vista del gruppo che vi si riconosce e che dunque può essere legittimamente chiamata ‘concezione del mondo’ perché, pur non essendolo per noi, tale essa è per altri".
Giorgio Baratta ha discusso le analisi di Cirese in un capitolo del suo libro Antonio Gramsci in contrappunto (2007) e nel saggio «Gramsci ritrovato tra Cirese e i 'cultural studies'» (2009). Baratta è stato filosofo, e uno dei maggiori studiosi italiani di Gramsci. Trova importante l'approccio etno-antropologico alla cultura come chiave di lettura complessiva dell'esperienza umana, dato che con l'avvento della società di massa (massificazione, tecnicizzazione, standardizzazione) la cultura "non concerne più una sfera separata del vivere sociale, ma il vivere sociale stesso". Gramsci aveva visto questo, e lo interpretava in termini di lotta per l'egemonia (il titolo ciresiano Cultura egemonica e culture subalterne lo esprime compiutamente). L'analisi strutturale che Cirese fa del testo di Gramsci sprigiona energia, perché riesce a esprimere un "passaggio da una dimensione statica a una dimensione dinamica dell'analisi", mostrando il 'processo' in atto nel pensiero di Gramsci, la "mobilità costitutiva delle categorie gramsciane". Per Gramsci l'azione conoscitiva non è fine autonomo e autosufficiente, ma si integra "con la finalità pratica che, come sappiamo, è il superamento delle opposizioni qualitative che sono alla base del discorso, come quelle, fondanti, tra egemonia e subalternità, tra cultura alta e cultura popolare, tra direzione consapevole e spontaneità."
La giusta critica ciresiana che evidenzia il carattere di 'petizione di principio' del tentativo gramsciano di salvare la continuità quantitativa tra spontaneità e direzione consapevole, colpisce al cuore la tradizione gloriosa e fallimentare del 'centralismo democratico'. La risposta che Cirese trova in Gramsci, basata sulla 'connotazione', cioè sul rapporto di solidarietà tra un fatto culturale e un gruppo sociale, è "meno direttamente politica, e tuttavia rivoluzionaria dal punto di vista epistemologico": "Si tratta insomma del dato, che potremmo chiamare comparativo, tra che cosa facciamo noi quando esprimiamo le nostre convinzioni, più o meno scientificamente fondate, e che cosa fanno loro quando, comunque, parlano gesticolano danzano credono ridono e via dicendo. Ha qui radice, credo, sia il concetto etno-antropologico di cultura, sia quello di cultura tout court."
martedì 26 maggio

audio della lezione:
prima parte
seconda parte

Luigi M. Lombardi Satriani, «Gramsci e il folclore: dal pittoresco alla contestazione» (1967-1970) e «Analisi marxista e folklore come cultura di contestazione» (1968). Coincidenze e differenze nelle letture di Gramsci di Lombardi Satriani e di Cirese. Per Lombardi Satriani il ricorso alla analisi marxista è necessario, per la fondazione metodologica e critica della scienza folklorica. "Anzitutto, la concezione materialistica della storia ritiene che ogni cultura sia cultura di classe originata, 'in ultima istanza' da motivi economici. La cultura 'universale' è in effetti una cultura di classe esprimente i valori propri delIa classe dominante o ad essa utili. Ora, ciò che vogliamo sostenere è che a tale cultura che, essendo della classe dominante, assume un ruolo egemonico si contrappone la cultura della classe subalterna, portatrice di altri valori. La funzione che il folklore svolge nei confronti della cultura 'ufficiale', è contestativa, a volte in maniera consapevole ed esplicita, altre volte a livello inconsapevole, implicito" (1968, p. 67). "L'ipotesi fondamentale del nostro discorso è, quindi, come abbiamo già detto, che il folklore vada interpretato come una specifica cultura elaborata, con diversi gradi di frammentarietà e di consapevolezza dalla classe subalterna, con funzione contestativa nei contronti della cultura egemone, prodotta dalla classe dominante" (1968, p. 70). "[...] assumiamo il termine di contestazione nel senso di 'addurre testimonianze contrapposte'. In quest'accezione - che non è quella resa attualmente più nota dal movimento studentesco, per cui si tratta di una consapevole opposizione eversiva rispetto al 'Sistema' - è contestativa qualsiasi forma di 'contrapposizione di documenti, di testi, di testimonianze': con l'intenzione antagonistica sia esplicita che implicita (a parte la necessaria differenziazione dei diversi livelli contestativi)" (1968, p. 72). "Nel mondo popolare subalterno è distinguibile quindi, all'interno di un comportamento globalmente subìto, un diverso che a livello generalissimo, è contestativo, se contestativo è, come noi riteniamo, quel comportamento che è altro dal comportamento prodotto dalla ideologia dominante: un comportamento cioè, che potenzialmente si autogoverna" (1968, p. 73-74). Lombardi Satriani segnala e discute anche gli aspetti di "conformismo", di "reazionarismo dei dominati" presenti nel folklore, e i problemi posti all'interpretazione dai fatti culturali condivisi, o che sono stati condivisi in passato, tra classi dominanti e classi subalterne; c'è poi anche la questione dei rapporti tra i sessi, con le donne che assumono il ruolo di categoria oppressa, nell'ambito dei rapporti sociali interpersonali, come lo è il proletariato sul piano dei rapporti tra le classi. Sul ruolo del ricercatore folklorista, Lombardi Satriani conclude così: "Il materiale folklorico, infine, anche se di per sé non rivoluzionario, può essere assunto in maniera rivoluzionaria. lntendiamo dire che nella prospettiva qui, per quanto sommariamente, delineata, la ricerca del folklorista - che non intenda evadere, attraverso il comodo alibi del 'neutralismo scientifico' dalla sua corresponsabilità con la società in cui vive - assume il valore di denuncia delle condizioni di vita inumane che società classista inevitabilmente impone agli sfruttati, e quindi supera consapevolmente il discorso strettamente culturale, che viene, così, recuperato in una dimensione politica che ha come sbocco 'necessario' l'impegno rivoluzionario" (1968, p. 86).
Pietro Clemente - Giulio Angioni, «I concetti gramsciani di egemonia e dominio in antropologia. Dialogo a due voci» (1979-2008). Angioni collega il concetto di egemonia con processi che concernono il potere, sul piano delle idee, dei modi di vedere e di sentire, delle aspirazioni, con esiti di interiorizzazione e di consenso; un potere considerato come espressione concentrata delle capacità di azione umana, concentrazione della forza sociale (o forza sociale concentrata). Il processo di egemonia è discorso che il potere fa per giustificarsi e per convincere, e il trasformarsi di questo messaggio in concezioni e sentimenti: è discorso sul potere e potere in quanto discorso.
Clemente ritiene che questo modello si ispiri o induca a ipotesi totalizzanti, che ricordano il concetto di 'contratto sociale'. A lui interessa piuttosto il lato degli egemonizzati che quello dell'espressione del potere; e comunque pensa che il discorso del potere abbia limiti di penetrazione nelle periferie e nelle retrovie sociali; la disomogeneità è la dimensione più interessante: mille discorsi circolano tra i subalterni e solo pochi di essi coincidono con il discorso del potere.
Angioni non sarebbe d'accordo con una 'microfisica' disgregata e casuale del potere, ridotto a infrastruttura di servizi, senza discorso né egemonia, che ingiustificabilmente si reggerebbe senza consenso; ma non vuole proporre ipotesi interpretative totalizzanti.
Clemente: si può estendere l'uso del concetto di egemonia, ragionando di società non capitalistiche?
Angioni: anche se in società diverse o precedenti rispetto alla nostra il 'fenomeno' egemonia non esistesse, si potrebbe però continuare a usarne il concetto per parlare di fenomeni di direzione morale e intellettuale.
Clemente: se l'interpretazione di 'egemonia' si articolasse nella considerazione di microlivelli in cui essa agisce (clientelismo, vicinato, famiglia, fabbrica, parrocchia, gruppo di coetanei, associazioni formali o di fatto, per fare esempi propri della nostra società), forse ne risulterebbe agevolata e pensabile la estendibilità ad altre forme sociali; 'egemonia' è concetto che manca all'antropologia politica e alla sociologia, che potrebbero giovarsene, perché è vero che frammenti o embrioni di 'egemonia' si riscontrano in quasi tutte le forme di potere conosciute.
Angioni: concludendo, "mi pare che anche dai tuoi discorsi risulti chiara l’individuazione di un aspetto principale dell’egemonia, aspetto che potremmo chiamare il suo essere una funzione ideologica del potere. E ciò sarebbe riscontrabile in forme diverse in ogni società, sia in società dove il potere è un qualcosa di diffuso e proprio dell’intera società, come sembra accadere presso le bande di cacciatori raccoglitori più semplici, sia in società dove la dislocazione e la concentrazione del potere, cioè il dominio, si manifesta nelle forme più svariate. A diversa forma di dominio, diverse forme ed esiti di esercizio dell’egemonia".

 

 

 

 

 

 

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